
Estratto da Corus Cafè n°10
Molti cultori di romanistica parlano del soggiorno nell'Urbe di vari scrittori e poeti che nelle loro lettere si sono mostrati entusiasti della città ed hanno partecipato con gioia alla vita movimentata che offriva loro.
Trattorie, locande, alberghi, caffè li accolsero cordialmente con quell'umanità tipicamente romana che derivava dagli antichi Quiriti per i quali Roma era la comunis patria.
Tuttavia pochi hanno parlato del primo soggiorno a Roma, sgradevole per Giacomo Leopardi. Vi giunse il 23 novembre 1822 e vi rimase fino al 28 aprile 1823.
Ve lo avevano accompagnato gli zii don Girolamo, Carlo e Marianna, e fu ospitato nel palazzo Mattei Caetani.
Estintisi i Mattei di Giove, il palazzo fu ereditato da Marianna, figlia di Giuseppe Mattei e moglie di Carlo Teodoro Antici di Recanati, fratello di Adelaide madre del poeta. Giacomo non si trovò bene in qualla casa e scrisse al fratello Carlo della sua impressione per l'orrendo disordine, la confusione, la minutezza insopportabile, la trascuratezza indicibile e altre spaventevoli qualità che vi ritrovò.
Si sentiva "intieramente solo e nudo" in mezzo ai suoi parenti benchè nulla gli mancasse. "inespertissimo delle strade" non poteva uscir di casa senza la compagnia di qualcuno della famiglia, ed era obbligato a far vita di casa Antici.
Dopo aver "duellato" a parole con canaglie fabrianesi e iesine che si prendevano gioco di lui, si sentiva invaso da tanta tristezza, e soggiungeva: "ho trovato il diavolo più brutto assi di quello che si dipinge. Le donne romane alte o basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia".
Il padre, il conte Monaldo, raccomandava al figlio di guardarsi dai pericoli della grande città, dalle seduzioni...E Giacomo rispondeva "...stia di buon animo... le dirò che ho trovato in Roma assai più insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quello che io mi aspettassi...nonostante la poca pratica, mi riprometto di scoprire almeno una parte degli artifizi che s'adoperano per sedurre i giovani".Alla sorella Paolina scriveva in 3 dicembre: "Volete sapere dei fatti miei? Se Roma mi piace, se mi diverto?...Il più stolido recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio romano.
La frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S'io volessi raccontare tutti i proposti ridicoli di loro discorsi, non mi basterebbe un libro"
Povero giovane poeta! Quei romani rudi , si, ma genuini e sinceri, eredi dei Cesari, degli Scipioni, dei Titta dell'Anguillara, quei trasteverini, che combattevano col martino [il coltello] il potere temporale di papi e la tracotanza dei Francesi, quei Romani che nel 1849 avrebbero difeso Roma repubblicana eroicamente, quelle fiere, belle donne, eredi delle matrone dell'antica Roma, non ritenevano di ossequiare il piccolo conte marchigiano.
In un'altra lettera egli scrive scoraggiato: "L'attirare gli occhi degli altri in una gran città è un'impresa disperata. Queste città son fatte per i monarchi o per i potenti...". "Al passaggio in chiesa, per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Son passato spesse volte con amici belli ed eleganti vicino a donne giovani; le quali non hanno mai alzato gli occhi,e si vedeva che ciò non era per modestia, ma per pienissima indifferenza e noncuranza. E' così difficile fermare una donna in Roma...non la danno; il tutto si riduce alle donne pubbliche che sono circospette e pericolose..."
In un'altra lettera deplora che gli studiosi di Roma si interessino soprattutto di archeologia e che si sforzino di provare se qual pezzo di rame e quel sasso appartenga a Marcantonio o ad Agrippa. Il celebre filologo mons. angelo Mai, invece, è gentilissimo, sa bilanciarsi nella politica, mostra di voler soddisfare a ciascuno e fa in ultimo il suo comodo. "il papa Pio VI - scrive il Leopardi - deve il suo cardinalato ad una civetta e si diverte a discorrere delle lascive dei suoi cardinali e ci ride".
Comprendiamo benissimo lo stato d'animo del poeta che, venuto a Roma, cercava un posto come bibliotecaio alla Vaticana o come cancelliere del Censo o in qualche altro instituto, ed era costretto a fare lunghe camminate, poco gradite per i suoi piedi piatti, a contatto con i sanpietrini. Solo lo spettacolo del Carnevale lo stupì e lo fece distrarre; ma trovò pace, una pace malinconica, quando si inginocchiò presso la tomba del Tasso in Sant'Onofrio: "fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi...tu [si rivolge al fratello Carlo] comprendi la gran folla di affetti che nasce nel considerare il contrasto del Tasso e la sua umile sepoltura".
Partirà da Roma sofferente fisicamente e senza aver ottenuto un posto di lavoro. vi ritornerà col Ranieri e abiterà in una pensione in via Condotti a n° 87. erano passati circa dieci anni dal suo primo soggiorno, ma anche allora Roma fu per lui "un esilio acerbissimo".
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